Ombre e luci: perché la felicità da sola non basta.
“SII FELICE” . Apparentemente una frase semplice, quasi tenera.
Eppure, quello che sembra un augurio spesso si trasforma in un obbligo silenzioso.
Perché sentiamo il bisogno di augurare a qualcuno di essere ciò che non sempre si sente o si sentirà di poter essere?
Viviamo in un’epoca che tende a misurare il valore delle persone in sorrisi e successi, come se la felicità fosse una divisa da indossare anche quando l’anima vorrebbe restare nuda, mostrarsi semplicemente per ciò che è, senza filtri.
Sui social proliferano volti sorridenti e parole luminose. Eppure, dietro quell’immagine levigata, spesso si nasconde un silenzio profondo: un dolore che non trova voce, una paura che non può essere mostrata.
In terapia mi capita spesso di incontrare questo paradosso: persone che soffrono non solo per ciò che vivono, ma anche per il fatto stesso di soffrire.
Una doppia ferita: il dolore e la colpa per il fatto di provarlo.
Molti raccontano di aver imparato presto che certe emozioni come rabbia, tristezza, paura, non “stanno bene”. E da lì al: “Non arrabbiarti”, “non piangere”, “pensa positivo”, il passo è sempre più breve.
E’ così che impariamo a nascondere le ombre dentro di noi.
Ma prima o poi facciamo esperienza del fatto che ciò che non trova spazio nel linguaggio trova comunque il modo di tornare a farsi sentire: nel corpo attraverso i sintomi, nella mente attraverso i sogni, o in quel vuoto sottile che accompagna anche i giorni apparentemente felici.
Nel modello simbolico-esperienziale, ogni emozione è una voce del Sé, un movimento di vita che chiede ascolto. La rabbia protegge, la paura segnala bisogno di sicurezza, la tristezza invita alla connessione. Soffocarle significa interrompere il dialogo con la parte più viva di noi.
Negli ultimi anni, la psicologia ha fatto passi importanti.
La Second Wave Positive Psychology non cerca più la felicità a ogni costo, ma l’integrazione tra luce e ombra.
Il benessere non consiste nell’eliminare il dolore, ma nel trasformarlo in significato: riconoscere che nella fragilità c’è forza, che la paura può diventare guida, che la tristezza, se accolta, genera tenerezza e profondità.
Essere felici non significa sorridere sempre. Significa dare spazio a ogni parte di sé, anche a quella che trema o si nasconde. È un gesto relazionale: dentro di noi, tra di noi, insieme all’altro.
Solo quando un sistema può contenere tutte le sue emozioni, allora può dirsi vivo.
La felicità, da sola, non basta.
Quando anche l’ombra trova il coraggio di mostrarsi e il dolore può essere accolto senza giudizio, dentro di noi accade qualcosa di profondo: le parti che un tempo si evitavano iniziano a riconoscersi, a dialogare.
Da questo incontro nasce una pace che non ha a che fare con la perfezione, ma con l’autenticità — la quiete di chi smette di inseguire la felicità come un dovere e sceglie, invece, di abitare la propria interezza.
È la serenità di chi si concede di essere umano, fedele a sé stesso e in relazione viva con ciò che sente.
Roma, 14.10.2025

Sono la Dottoressa Francesca Galletti, Psicologa e Psicoterapeuta Familiare.
Nella mia attività di psicologa svolgo un servizio di consulenza psicologica e psicoterapia per adulti, coppie e famiglie.
